venerdì 14 aprile 2023

Selezione e formazione dei docenti

  Da sempre è questo uno degli argomenti che più mi stanno a cuore e mi appassionano, in virtù anche della considerazione sociale (a volte pessima) di cui gli stessi insegnanti godono.

Quello dell'insegnante è un mestiere delicato e complesso, un mestiere che richiede, perché possa essere esercitato al meglio, una predisposizione particolare, un amore e una passione che solo se si sta bene con sé stessi permettono di poter lavorare serenamente.

Tuttavia sembra che tale aspetto, che spesso viene sottolineato, non venga poi tenuto in conto quando si tratta di creare le condizioni di accesso alla professione docente.

Il possesso di un determinato titolo di studio, diploma o laurea che sia, permette a chiunque di inserirsi nelle graduatorie di disponibilità per le supplenze: è da questo momento che si creano le file di aspiranti docenti precari che alla prima chiamata di supplenza si ritrovano ad entrare in classe portandosi appresso come esperienza solo quella vissuta qualche anno prima sui banchi di scuola come studente.

Certo, ci sono anche supplenti che alla prima esperienza hanno superato concorsi, hanno svolto attività specifiche di insegnamento in tirocinio o hanno compiuto studi specifici legati alla professione docente.

La maggior parte, tuttavia, spesso impara a svolgere questo mestiere sulla pelle degli studenti. Ciò non significa che per questo non si diventi comunque un buon insegnante. Il problema però è che spesso si diventa insegnanti per caso, perché inizialmente l'accesso, seppur precario, alla professione non prevede una selezione che per le altre professioni è invece richiesta. Si creano aspettative di concorsi, ordinari e/o riservati, che restano tali per anni e anni e anni, in una situazione di precarietà logorante sia per chi la vive sia per chi la subisce e purtroppo, a volte, ne paga le conseguenze.

Conoscere una disciplina non necessariamente significa saperla trasmettere; vivere in contatto quotidiano con persone in fase di crescita richiede una disponibilità empatica e, al tempo stesso, una autorevolezza che non si possono sicuramente misurare con un concorso ordinario che tende a puntare sul nozionismo e non ad osservare le competenze relazionali e le modalità operative e didattiche del candidato.

Una formazione iniziale specifica per la professione insegnante potrebbe prevedere un corso abilitante almeno biennale comprensivo di tirocinio da svolgere presso un istituto statale il cui titolo permetta di inserirsi in graduatorie valide per le supplenze e per l'immissione in ruolo.

La formazione dovrebbe poi nel corso del tempo continuare in servizio visto il continuo mutamento delle generazioni e la necessità di adottare strategie didattiche efficaci e personalizzate.

Infine, sarebbe opportuno che si considerasse l'importanza di svolgere tale lavoro in serenità, prevedendo, laddove ve ne sia la necessità, il distacco dall'attività in classe a contatto con gli studenti per svolgere tutoraggio o altre mansioni che attualmente gravano sulle spalle dei docenti volontari (pochi) sempre presenti e spesso esauriti e stressati.


venerdì 24 marzo 2023

Le colpe delle madri (e dei padri)

 "Tutta colpa dei genitori" si intitola un libro, pubblicato nel 2010, scritto dalla collega Antonella Landi, in cui l'autrice, sulla scorta della sua quotidiana esperienza scolastica, evidenzia le problematiche e le fragilità di preadolescenti e adolescenti frutto, spesso, di una inadeguata, sebbene esercitata in buonafede, azione educativa da parte dei genitori.

La questione, oggetto di attenzione da parte di studiosi ed esperti psicologi e pedagogisti da vari anni, è diventata sempre più delicata e sfidante. C'è chi come il pedagogista Daniele Novara in più di un'occasione ha affermato che non sono gli adolescenti ad essere cambiati nel corso del tempo: tipico dei più giovani, da sempre, nel passaggio dall'infanzia all'età adulta, è l'atteggiamento sfidante volto al superamento del limite che nelle società primitive era scandito dai riti di passaggio. 

Non sono dunque i giovani ad essere cambiati, sono cambiati gli adulti. 

Adulti che sono diventati sempre più amici dei loro figli, tendendo ad alleviare ogni sofferenza, ogni dolore, giustificando ogni mancanza, con un atteggiamento amorevole e materno che ha visto il trionfo delle madri e la riduzione dei padri a complici compagni di gioco dei propri figli.

Conseguenza di tutto questo l'inevitabile disagio dei figli in fase preadolescenziale ed adolescenziale che, non avendo più di fronte un genitore se non autoritario almeno autorevole e sfidante, rovesciano su se stessi il malessere tipico dell'età, non sentendosi più all'altezza delle aspettative di quei genitori che li hanno incoronati, fin dalla nascita, imperatori.

La situazione è inevitabilmente peggiorata, aggravandosi sempre di più, con la diffusione della pandemia. 

Chi come me ha a che fare quotidianamente con centinaia di adolescenti non può non cogliere i sintomi di un'ansia e di un disagio esistenziale che si manifesta nei modi più svariati possibili: aggressività, cattiveria, ritiro sociale, crisi di pianto per una verifica scolastica andata a male, consultazione frenetica di social, uso e abuso di alcol e sostanze stupefacenti ma soprattutto la voglia di essere ascoltati e gratificati, riconosciuti come individui unici ed irripetibili per quello che sono, non per quello che gli altri, soprattutto gli adulti che essi amano, vorrebbero che fossero.






lunedì 20 marzo 2023

Famiglie tradizionali

 Nelle famiglie tradizionali (o presunte tali) di una volta, poteva accadere che se una coppia, preferibilmente benestante, non aveva figli, provvedeva a procurarsene uno/una grazie alla mediazione di sorelle o cognate, regolarmente sposate la cui vita di coppia era invece particolarmente fertile. Sì, succedeva. Senza troppi scrupoli o ipocrisie, anche se si preferiva poi tacere.

sabato 11 giugno 2022

Da numero a fantasma: il dramma della dispersione scolastica

 Fantasmi, è vero. O, più semplicemente, come si diceva una volta, numeri. Sorprende che nella scuola, soprattutto in certi indirizzi di scuole, non ci si renda conto del dramma che noi tutti, e in primo luogo i più giovani (mi riferisco ai bambini e, soprattutto, agli adolescenti) abbiamo vissuto negli ultimi due anni. La scuola è diventata così lo specchio di un fallimento educativo che già era presente prima della diffusione della pandemia e che con la pandemia ha mostrato tutte le sue criticità: una scuola a volte esageratamente selettiva che non è stata capace di far emergere le potenzialità di ciascuno degli studenti che gli erano stati affidati e, d'altra parte, una scuola fin troppo lassista, ugualmente incapace di trasmettere passione, conoscenza, entusiasmo per la vita e per il sapere. Una scuola con docenti spesso disillusi o trasformati in meri burocrati, impegnati a compilare moduli e a formulare discorsi in cui non ci si crede. Una scuola che a volte, tuttavia, resiste, e lo fa con chi, maestro, insegnante, genitore, dirigente, operatore o collaboratore a qualunque titolo nella scuola, continua a credere che gli studenti abbiano il diritto di avere almeno un maestro, un insegnante che segnerà il percorso della loro vita per sempre, che trasmetterà loro la passione per la conoscenza, per il sapere, per la vita, e che sarà capace di mostrare a ciascuno il proprio talento. Ci sono questi docenti, ci sono queste scuole ed è nel loro entusiasmo e nella loro passione che bisogna riporre le speranze, nonostante tutto.

giovedì 28 aprile 2022

Il cognome del padre e della madre

#ancoratantodafare

 A Samantha Cristoforetti, alla vigilia della sua partenza per lo Spazio, è stato chiesto a chi avrebbe lasciato i suoi figli. "Al padre." ha risposto lei.

Ecco, a un astronauta di genere maschile, nessuno si sarebbe sognato di fare la stessa domanda.
La questione del cognome del padre e della madre, per essere affrontata, ha avuto bisogno di una spallata della Corte Costituzionale.
Ma per il resto c'è ancora tanto, tanto, tanto da fare.

domenica 24 aprile 2022

Amori difficili

 

"Forse passerà [...] una mattina, a salutare. Solo a salutare, niente di importante. Non servirebbe a niente comunque, perché lei lo sa benissimo, lo sa bene quanto lui che è l'amore, imperfetto e disordinato, a tenerli separati, proprio mentre in qualche modo li unisce [...]."

La citazione, tratta dal romanzo "Gente senza storia" di Judith Guest (Traduzione di Masolino d'Amico, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1977, pg. 277; da questo romanzo è stato tratto il film di Robert Redford  "Gente comune" del 1980), si riferisce alle difficoltà relazionali tra una madre e un figlio coinvolti in una tragedia familiare, ovvero la morte del figlio primogenito, amatissimo dalla madre e modello di riferimento per il fratello. Evidenzia la necessità, in alcuni casi, di rimanere lontani, anche se ci si vuole bene, perché restando vicini si soffrirebbe troppo.


E' una situazione che può riguardare non solo le relazioni tra madri e figli, ma tutte le tipologie di relazione, comprese quelle amicali.

L'amore verso gli altri non è sempre lineare, chiaro, perfetto.

A volte è complicato, doloroso, difficile. Al punto da richiedere una separazione, per evitare di continuare a farsi del male.

giovedì 17 marzo 2022

Docente psicologo?

 Sinceramente, ritengo che i due ruoli, quello del docente e quello dello psicologo, debbano essere assolutamente distinti poiché distinte ne sono le funzioni. Indubbiamente un insegnante deve sapere ascoltare uno studente, ne deve comprendere le difficoltà nell'approccio allo studio ma non deve trasformarsi nello psicologo che lo aiuta a guardarsi in sé stesso e a relazionarsi con sé stesso, con gli altri, con la realtà che lo circonda. Il compito del docente è quello di trasmettere l'amore per lo studio e per le discipline insegnate, stimolare la curiosità e il dubbio ma non trasformarsi in uno psicologo o in un confessore, rischiando di fallire in entrambi i ruoli, quello del docente e quello, appunto, dello psicologo.

giovedì 11 marzo 2021

10 marzo

 E ora, dopo tutti gli slogan, e i fiori, spesso mimose, e le belle parole, ci aspetteremmo, in ordine sparso:

- nidi e scuole dell'infanzia pubblici e di quartiere, se possibile aperti 24 ore su 24 (se lo fanno i supermercati, possono farlo anche gli asili nido, anche perché potrebbe essere che i genitori di quei bambini lavorino proprio nei supermercati aperti 24 ore su 24)
-fasciatoi anche nei bagni per signori, come accade nei Paesi dell'Europa del Nord
- un welfare che non si limiti a riconoscere un bonus una tantum a chi ha dei figli ma che consenta a tutti, uomini e donne, di scegliere serenamente di diventare genitori potendo assicurare cibo e beni primari per sé e per i propri figli
- politiche sociali e del lavoro che non costringano le donne a dover scegliere tra lavoro e maternità, tra lavoro e cura di familiari
- il riconoscimento del valore e dei talenti di ciascuno, indipendentemente dal proprio genere
- il superamento di una cultura sessista, strisciante e dominante.
Ok. Per oggi ho finito. ⏰

lunedì 1 febbraio 2021

Morire di parto

Quando nel 1977 questa canzone cominciò a circolare sulle radio libere che trasmettevano canzoni melodiche, non potei far a meno di esserne colpita. 

Nel 1977  morire di parto in Italia non era un'eventualità così remota, sebbene accadesse sempre meno frequentemente rispetto ai primissimi anni del decennio precedente (1960/1961), quando l'ospedalizzazione del parto non era ancora così diffusa.

Fin da bambina io avevo imparato che di parto si poteva morire e che potevano morire sia la madre sia il neonato. Entrambi. O uno dei due. 

Nella mia famiglia la cugina di mia madre, a 22 anni, era morta di parto e con lei era morto il suo bambino. Il sorriso di quella giovane donna, di cui mi restava il ricordo nella foto che la madre di lei teneva in sala e che era la stessa che c'era sulla sua tomba, mi turbava ogni volta che mi capitava di guardarlo.

Ugualmente mi turbava e mi imbarazzava, perché mi sembrava di essere una privilegiata rispetto a lei, la vicenda di una bambina che abitava nel mio condominio e che era mia compagna di giochi: la sua mamma era morta nel darla alla luce e lei viveva con la nonna materna.

Sono le storie che viviamo che spesso, anche se non ce ne accorgiamo. ci segnano per sempre, indirizzando e guidando poi le nostre emozioni, le nostre passioni, le nostre attenzioni e le nostre curiosità, i nostri gusti, le nostre scelte di vita.


"Finalmente s’apre quella porta accanto
Mi fissa lì il dottore e aspetta un pianto
Lo so, non me lo dica, ho già capito
Il bimbo è nato, ma il sogno è finito
Odio mio figlio
Dio, che mi succede
Lo odio con tutta la mia anima e lo vedo
Lo so che non ha colpa, ma non posso amarlo
In cambio non lo accetto, devo odiarlo"



https://www.youtube.com/watch?v=UKugS2PGr3o&feature=share&fbclid=IwAR021YOUDqnM848s8bhVR3rZaP_De5lFRLvBisa2ATPBISX8PPdDH12TAsk


Filippo Schisano
Odio mio figlio
Sono lì in corsia ad aspettare
Che diventi padre, sai che gioia
A te che soffri per amore mio
Ma non faccio altro che pensare a te
Nella gioia e nel dolore sarà sempre mio
Ho comprato delle rose stamattina Che bellezza se verrà un bambino
Mi fissa lì il dottore e aspetta un pianto
Non potrò scordarmi mai di Dio Finalmente s’apre quella porta accanto
Dio, che mi succede
Lo so, non me lo dica, ho già capito Il bimbo è nato, ma il sogno è finito Odio mio figlio
In cambio non lo accetto, devo odiarlo
Lo odio con tutta la mia anima e lo vedo Lo so che non ha colpa, ma non posso amarlo Odio mio figlio Dio che mi succede
Ho rubato un giglio alla Madonna
Lo odio con tutta la mia anima e lo vedo Lo so che non ha colpa, ma non posso amarlo In cambio non lo accetto e devo odiarlo Anche se oramai non vale niente
Poi guardo quegli occhietti da bambino
Ma non ho il coraggio di donarlo a te Non mi ringrazieresti coi tuoi baci Odo un vagito gemere dal nulla Mi getto a capofitto nella culla Che chiedono perdono al suo papà Odio mio figlio
Lo odio con tutta la mia anima e lo vedo
Dio che mi succede Lo odio con tutta la mia anima e lo vedo Lo so che non ha colpa, ma non posso amarlo In cambio non lo accetto, devo odiarlo Odio mio figlio Dio che mi succede
L’ho solo perdonato, ma mi bagno il viso
Quel bimbo fuori guarda e mi fa già un sorriso

venerdì 6 novembre 2020

La scuola non si ferma


 La scuola non si ferma. Non si è mai fermata, da quando, tra fine febbraio e l'inizio di marzo, i docenti, magari ultracinquantenni, hanno reimparato il loro mestiere, sperimentando modalità di insegnamento cui mai avrebbero pensato di approdare. Improvvisamente G-Suite, Classroom, Drive, Moduli, Meet, sono diventati familiari anche a coloro che, in precedenza, non sapevano nemmeno da dove si accendesse un computer.

La scuola non si ferma, non si è mai fermata, checché ne pensassero coloro che hanno accusato la classe docente di aver usufruito di un lunghissimo periodo di vacanza a partire dal marzo scorso. C'è chi, tra gli insegnanti, bisogna ammetterlo, ha davvero goduto di un lungo periodo di vacanza: lo sanno i loro studenti, le famiglie, ma anche i colleghi e i dirigenti. Ma è ingiusto pensare che sia stato per tutti, per molti, così. La scuola non ha chiuso e non chiuderà. Per questo, adesso, andare a scuola, per i docenti, per continuare a far lezione in un'aula vuota, è dare un segnale: quello di chi esercita un mestiere essenziale, che si pone al servizio delle menti più giovani al fine di farle crescere, seppur in una condizione di difficoltà. Una sfida che, da sempre, i docenti sono disposti ad accettare.